Protezionismo, la Cina come gli USA del XIX secolo

Protezionismo, la Cina come gli USA del XIX secolo. È ormai evidente che più il presidente Donald Trump alza i toni nei suoi tweet, meno sono credibili. Una delle ultime tempeste su Twitter da lui innescate, insistendo….

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A cura di Charles Hepworth, Investment Director di GAM Investments


sul fatto che la Federal Reserve debba “replicare” a qualsiasi reazione da Pechino all’imposizione di barriere tariffarie, è piuttosto assurda anche per lui – tagliare i tassi e rischierare in campo il quantitative easing non è indicato in questa fase del ciclo, secondo noi.

Il fatto che il presidente sostenga che gli Stati Uniti avranno la meglio nell’ambito di qualsiasi accordo commerciale verrà negoziato è la conferma che una risoluzione delle controversie non sembra essere alle porte – la Cina potrebbe semplicemente decidere di aspettare che il tycoon esca di scena nella tornata elettorale del prossimo anno.

Questo, peraltro, potrebbe essere letto come uno sviluppo preoccupante poiché le aspettative sul raggiungimento di un accordo commerciale hanno incoraggiato una forte risposta dei mercati nel corso di quest’anno.

Tuttavia, per quanto i dazi non siano il miglior esito auspicabile, giustificano veramente il disagio accusato dal mercato azionario nell’ultima settimana?

I dazi sono costi aggiuntivi a carico dei consumatori del paese importatore, in questo caso gli Stati Uniti.

Trump ha aumentato le barriere su 200 miliardi di dollari di merci cinesi dal 10% al 25%, raccogliendo quindi altri 30 miliardi di dollari di “tasse”.

Se decidesse di imporre il 25% su tutte le importazioni cinesi, si tratterebbe di un totale complessivo di 135 miliardi di dollari all’anno – sembra molto ma in realtà è poca cosa rispetto al gettito fiscale totale negli Stati Uniti di oltre 5 mila miliardi di dollari.

A nostro avviso, l’effetto sull’inflazione sarà transitorio ma immediato: potrebbe far salire i prezzi al consumo dallo 0,3% allo 0,5% circa.

E potrebbe essere sufficiente per spingere la Fed verso una posizione più aggressiva e invertire la tendenza data dal precedente capovolgimento della politica.

A loro volta, le imprese ne risentirebbero con un incremento stimato dei costi pari all’1%, stando a uno studio della Fed stessa.

Il progresso della guerra commerciale non è chiaramente l’ideale – le lotte commerciali tra le due maggiori economie al mondo non favoriscono un’accelerazione della crescita globale, come si auspicava quest’anno, ma non riteniamo in alcun modo giustificata l’ultima oscillazione del mercato.

Attualmente ci aspettiamo rally moderati con l’uscita di scena del denaro “che scotta di più”.

L’economia cinese stava già decelerando prima di tali schermaglie sul piano commerciale, come dimostra l’ultima carrellata di dati economici, da cui si evince un rallentamento in tutte le aree.

Man mano che la Cina si evolve in una nazione più sviluppata, riteniamo che il tasso naturale di crescita calerà.

Mi aspetterei che Pechino accetti lo status quo dei dazi, in quanto consente loro di giocare ancora sui punti maggiormente contestati dagli oppositori di un’intesa tra USA e Cina: le joint venture che, a loro dire, portano al furto di proprietà intellettuale; e i sussidi statali che danno luogo a un vantaggio sleale.

Quando gli Stati Uniti avviarono il processo di industrializzazione nel XIX secolo, adottarono la medesima tipologia di protezionismo dell’economia domestica ed è per questo che crediamo che il Dragone non accetterà mai le richieste di Washington, costi quel che costi.

Prevediamo che gli stimoli in arrivo dalla Cina risponderanno al rallentamento della propria economia e agli effetti dei dazi e, di conseguenza, al ritorno a un atteggiamento più favorevole all’assunzione del rischio da parte degli investitori

Fonte: BONDWorld.it

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